4 Racconti brevi:COLORO CHE PARTIRONO DAL CENTRO DEL CERCHIO


Il Potere (Katya Sanna)


COLORO CHE PARTIRONO DAL CENTRO DEL CERCHIO

1. Jeanne La Blanche
2. I Viaggiatori
3. I Dormienti
4. L’Arciere


JEANNE LA BLANCHE

Era notte quando arrivò sulla riva.
Una notte illuminata da tutte le Stelle del cielo, che scintillavano sulla cresta degli alberi altissimi, di quello che sembrava un bosco fitto e inviolato.
Malgrado fosse stanca per aver remato per tante ore, non si fermò:
abbandonò la piccola barca incustodita e s’inoltrò nel bosco.
Il suo viaggio era iniziato da così tanto tempo che quasi non ricordava più il giorno della sua partenza.

Aveva visitato migliaia di mondi, Stelle e Pianeti: coprendo distanze inverosimili.
Da diversi mesi era approdata sul pianeta Terra.
Aveva assistito a troppe sofferenze ed in lei cresceva la compassione per i popoli che incontrava.
Sempre di più, sentiva dentro di sé l’esigenza di fermarsi e partecipare alla vita dei mondi che aveva scoperto. 
Restare voleva dire rimandare il ritorno alla sua casa ed alla sua famiglia;
ma ormai era quasi decisa a fare questa scelta.
Lei proveniva da un mondo dove era sempre esistita la pace, e sperava di riuscire a ricreare altrove quello che aveva vissuto prima di iniziare il suo viaggio.
A tutto questo pensava mentre camminava fra le sterpaglie di quel bosco ingentilito dalla luce argentata che proveniva dalle Stelle.

Si accorse di essere seguita, fece finta di niente e proseguì il suo cammino.
Chi la spiava si stava avvicinando, lei con la coda dell’occhio vide chi era:
sorrise divertita.
Dopo aver percorso un lungo tratto di boscaglia trovò un posto che le piaceva.
Decise di accamparsi.
Posò il suo zaino a terra dal quale estrasse un grosso scudo d’oro decorato da eleganti iscrizioni.
Con un piccolo strumento osservò le Stelle; ne puntò una: Sirio. 
Posizionò lo scudo in direzione di quella Stella e con voce bassa iniziò a recitare una strana formula cantilenante.
I cespugli di fronte a lei si agitarono: vide due bambini correre via affannati.
Sorrise di nuovo e riprese a recitare la sua cantilena.
- Ma chi è quella? - disse uno dei bambini
- Una strega! - gli rispose l’altro
- Io torno a casa ho paura!
- No aspetta! - lo frenò questo tornando a guardare verso la direzione da cui stavano fuggendo - Io voglio sapere chi è...
- Io no ho paura!
- Dai vieni anche tu - disse tirandolo per la cintura dei pantaloni
- No...
Uno più risoluto, l’altro contro la sua volontà, ma tutti e due tornarono a spiare la misteriosa signora con lo scudo d’oro.  
Lei era ancora impegnata a recitare la strana cantilena.
- Ma che lingua è?
- Quella è una strega, andiamocene!
Lo scudo si era acceso di una luce innaturale, misteriosa e magica:
sembrava rispondesse alle parole che lei pronunciava.
La misteriosa signora rovistò nel suo zaino ed estrasse un grande foglio di carta e con una matita cominciò a scrivere.
Rovistò ancora nello zaino e questa volta tirò fuori dei piccoli veli azzurri: 
li legò ai rami dell’albero sotto il quale stava seduta.
La videro, poi, muovere le mani con gesti eleganti, come una minuscola danza.
Intorno a lei si formò un cerchio di vapore azzurro, e le tre le pietre che indossava iniziarono a brillare.
- Allora è una Fata! - esclamò uno dei due bambini         
- Io vado a casa! - disse l’altro ancora più spaventato di prima
- Dai aspetta ancora un po’!
- No no, io ho paura!

Non appena misero piede in casa subito la loro madre li sgridò.
Erano tempi difficili e due bambini da soli correvano molti pericoli, ma loro subito cominciarono a raccontare quello che avevano visto:
- C’è una tipa nel bosco con un mantello rosso che fa brillare uno scudo d’oro, ha dei gioielli che si illuminano e parla una strana lingua! 
- E’ una strega!
- E’ una fata, scemo!
La loro madre non sapeva se arrabbiarsi o mettersi a ridere;
con fare autoritario li ordinò di andare a dormire.
Obbedirono.

Uno solo fece finta di obbedire.
Il più curioso sgattaiolò dalla finestra e tornò nel bosco.
Questa volta però non si nascose: andò dalla donna. 
- Chi sei? Una strega ?
- No - rispose lei sorpresa
- Sei una fata?
- No
- Allora cosa sei?
- Indovina
- Sei una vagabonda!
- No
- Non ce l’hai una casa?
- Si che ce l’ho
- E dov’è?
- Lontano
- Tanto lontano?
- Si parecchio
- E vai in giro da sola?
- Si
- Non hai paura?
- No
- Non hai nessuno che ti aspetta a casa?
- Si ho una bella famiglia
- E non hai nostalgia?
- No io la sento tutti i giorni, come se viaggiasse con me.
Il bambino si sedette accanto a lei:
- Come ti chiami?
- Jeanne
- Jeanne e basta?
- Jeanne La Blanche
- Quanti anni hai?
- Tu quanti me ne dai?
- Venti
- No di più
- Trenta?
- No no molti di più - rise Jeanne
- E che sei più vecchia della mia mamma?
- Sono la più vecchia di tutti quelli che conosci
- No...Mi stai prendendo in giro!
Jeanne rise sempre più divertita:
- Tu come ti chiami?
- Io mi chiamo Zed
- Zed! Che nome importante!
- Mio padre mi ha chiamato così, lui mi raccontava tante favole, a me piacevano a mio fratello mettevano paura
- Com’era tuo padre?
- Un tipo simpatico, faceva il maestro di scuola
- Cosa gli è successo?
- Lo hanno arrestato e poi è sparito
- Lo hanno ucciso?
- Si
- Era buono tuo padre vero?
- Si tanto
Zed si immalinconì.
Jeanne vedendolo rattristato, da un sacchetto che portava in tasca, estrasse i fiori gialli del Iperico e li diede al bambino.
- Masticali, ti tornerà il buon umore - sorrise
Fu così, Zed riprese a tempestarla di domande:
- Perché sei vestita così?
- Per riparami dal freddo
- Cosa c’è scritto qui? - chiese indicando le iscrizioni sullo scudo
- Il nome del mio Maestro
- E chi è?
- E’ scritto qui - rispose ridendo indicando lo scudo
- Spiritosa! Che ne so io come si legge la tua scrittura.
Jeanne scoppiò a ridere.
- Ma che lingua parli?
- La lingua del mio popolo
- Prima ti ho sentito dire cose strane, ti ho visto guardare le Stelle con un oggetto strano, ho visto lo scudo tutto illuminato...Cosa facevi?
- Parlavo con il mio Maestro
- Cosa insegna il tuo maestro?  
- Non insegna è un Principe
- Un principe! - esclamò Zed tutto eccitato - Anche tu sei una principessa?
- Si
- Mamma mia ho conosciuto una principessa!
Jeanne continuava a ridere.
- E i gioielli che porti te li ha regalati il tuo principe?
- Si, me li ha regalati quando sono partita. Questo è un Diamante - indicò il ciondolo appeso al collo - questo è Dragonite - indicò l’anello - e questo sul bracciale è Agata.
- E’ molto ricco il tuo principe!
- Più o meno
- Cos’ha un castello, tanti servitori...
- No nessun castello, nessun servitore: è un guerriero
- Allora è cattivo!
- No non è cattivo, è un po’ nervoso...- sorrise Jeanne alzando gli occhi verso Sirio
- E’ coraggioso
- Molto coraggioso
- E’ severo
- Si è molto severo - rispose più seria
- Anche con te?
- Uhm...No...No non direi 
- Ha tanti soldati?
- Guida dodici legioni con migliaia di soldati
- Mamma mia!  
- Com’è il tuo principe?
- E alto...
- Più alto di te?
- Si poco più alto di me
- Cos’è un gigante? - disse fra se Zed - E poi?
- Ha i capelli biondi molto lunghi e gli occhi celesti chiari chiari come i tuoi
- Cosa disegnavi prima su quel foglio grande?
- Ma quanto sei impiccione!
- E dai!
- Parli di questo? - gli chiese Jeanne indicando il grande foglio arrotolato che s’intravedeva dallo zaino
- Si, cos’è?
- Una carta geografica.
Jeanne prese il foglio lo srotolò a terra e illustrò a Zed tutto quello che era rappresentato sulla carta:
- Stò tracciando una mappa segreta...
Zed sgranò gli occhi, Jeanne sorrise scuotendogli i capelli.
Jeanne indicò a Zed tutto ciò che aveva segnato sulla carta:
strade, passi montani, cunicoli, città, palazzi.
Rivelò al bambino che il suo lavoro era dedicato ad altre persone, che non conosceva: gente che avrebbe dovuto seguire i luoghi che lei indicava sulla carta.
- Ma se tu non li conosci come fanno a sapere le cose che gli devi dire?
- Io le riferisco al mio Maestro e il mio Maestro le riferisce ai Maestri di tutti quelli che devono seguire le mie indicazioni.
A Zed tutto questo sembrava difficile da capire, ma affascinante:
- Ma che sei una spia?
- Più o meno - gli sorrise Jeanne 
- E non hai paura di essere scoperta? Se ti arrestano...
- Nessuno può farmi del male - Jeanne rispose con una sicurezza tale che impressionò Zed:
- Vuoi conoscere la mia mamma e mio fratello?
- Certo!
Zed con notevole agitazione trascinò Jeanne verso la sua casa.

Quando Jeanne vide dove abitava Zed, quasi le venne da piangere:
- E qui che abiti? - gli chiese sperando le rispondesse di no
- Si! - rispose lui correndo verso la porta.
Era un alloggio di fortuna, una baracca ricavata da:
tavole di compensato, ante di armadi, cartone pressato, una porzione di una roulotte.
Malgrado la miseria che apparve davanti agli occhi di Jeanne, c’era comunque un che di poetico: dei fiori piantati alla meglio intorno alla casa.
Appena entrarono la madre di Zed era già pronta a sgridarlo,
ma si inibì all’istante appena vide Jeanne.
- E’ la signora che abbiamo visto nel bosco - disse subito Zed
La madre di Zed si sentì confusa, subito fece accomodare Jeanne su una sedia.
Jeanne ringraziando si guardava intorno, la madre di Zed guardava Jeanne con uno strano imbarazzo: la sua presenza la emozionava ma non ne capiva il motivo. 
- Dice che è più vecchia di te - disse Zed a sua madre
In quel momento da dietro una tenda sbucò il fratello di Zed:
- Ma che hai portato la strega?! - brontolò tutto insonnolito
Jeanne scoppiò a ridere.
- Non è una strega!
- Manlio: impara ad essere gentile con gli ospiti! - lo rimproverò la madre - Lo perdoni, e che non siamo più abituati a ricevere gente in casa.
L’attenzione Jeanne però fu catturata da un piccolo quadro appeso accanto ad una vecchia stufa a legna. Si alzò e andò a guardarlo da vicino.
- Lo dipinse mio marito, era insegnante di disegno - disse la donna a Jeanne, che osservava con attenzione ogni particolare del dipinto - mio marito al contrario di me era molto religioso - continuò la signora - quello è l’Arcangelo Michele: mio marito era convinto che quell’angelo fosse il protettore di chi ha fede in un Regno Superiore, e di chi si sente esule sulla terra...E poi...Ecco la fine che ha fatto...
Lui e la sua fede...
Jeanne si voltò verso la signora:
- Zed mi ha detto che è stato ucciso - disse commossa           
- Arrestato, torturato e buttato in una fossa comune...
- Mi dispiace...Non volevo ricordarle queste cose...
- Ma no, ma no...- rispose la signora - Lei non c’entra niente...
- Li vuoi i biscotti? - disse Zed tirando Jeanne per un braccio - La mamma è bravissima a fare i biscotti.
Jeanne era perplessa, guardava la signora trafficare con dei piatti di carta e un sacchetto pieno di biscotti dalle forme più fantasiose: fiori, Luna, Sole, albero di Natale, faccine sorridenti, bamboline.
Jeanne non aveva mai mangiato dei biscotti.
Jeanne non aveva mai mangiato nulla in tutta la sua vita.
Jeanne in realtà apparteneva ad una razza per cui non era necessario mangiare per sopravvivere.

Quando la mamma di Zed le pose davanti un piatto colmo dei suoi biscotti, Jeanne ne prese uno e lo portò alla bocca con una certa emozione. 
- Complimenti signora! Sono squisiti! - sorrise Jeanne continuando a mangiarne scegliendo le forme che la incuriosivano di più.
Così, Zed e Manlio con la loro mamma, insieme a Jeanne, passarono la notte intorno ad un tavolino traballante a mangiare biscotti chiaccherando e scherzando.
Quella notte fu decisiva per Jeanne:
la compagnia di quella famigliola le fece definitivamente decidere che avrebbe rimandato il ritorno fra la sua gente.
Ormai era convinta:
si sarebbe fermata sulla Terra, pronta a vivere come una donna terrestre, magari formando una famiglia come quella di Zed. 

Jeanne scrisse su un quaderno la ricetta per fare i biscotti, la madre di Zed e Manlio visto l’interesse di Jeanne le suggerì altre ricette per realizzare delle torte.

Si era fatta l’alba e tutti e quattro erano ancora svegli e allegri.
- E’ ora che io vada - disse Jeanne riprendendo il suo mantello.
Zed, e questa volta anche Manlio, la implorarono di restare, Jeanne sorrise e prima di uscire decise di fare un regalo a quella famiglia.
Diede alla signora dei semi:
- Sono di Verbena e Achillea, li pianti vicino alla porta - le disse Jeanne
- Manlio vai a mettere i semi sottoterra - gli disse la madre
Manlio prese i semi ed insieme a Zed s’improvvisarono giardinieri.
Intanto Jeanne sulla porta e sulla finestra della loro casa incise due disegni molto particolari che incuriosirono sia i bambini che la loro madre; questa rimase di stucco quando vide che Jeanne, sussurrando delle parole in una lingua a lei sconosciuta, fece sparire ciò che aveva appena disegnato.
- Ora nessuno potrà più farvi del male - sorrise Jeanne guardando i tre che la osservavano stupefatti, poi con un tono quasi minaccioso sentenziò - I nostri nemici si guarderanno bene da avvicinarvi.    

Jeanne salutò tutti e tre con un forte abbraccio, poi si rivolse a Zed:
- Quando avrò un bambino lo chiamerò come te.
I tre: mamma e figli la guardarono allontanarsi nel bosco.
- Ma chi era? - domandò Manlio alla madre
- Non lo so...Vostro padre avrebbe detto che era un Angelo.

I VIAGGIATORI

All’inizio dell’Estate la spiaggia era poco frequentata, quel giorno in particolare era praticamente deserta.
C’erano soltanto: una famiglia che aveva deciso di pranzare sotto il Sole e una studentessa che studiava seduta su uno scoglio.
Ogni tanto qualcuno attraversava la spiaggia in una passeggiata distratta o preso dai propri pensieri, o occupato in una conversazione più o meno animata.

La studentessa alzò gli occhi dal suo libro.
Da lontano vide una persona che attirò la sua attenzione:
un uomo camminava a passo spedito verso di lei.
Questo però fu costretto a fermare la sua la sua avanzata.
La sabbia ai suoi piedi prese la forma di una mano che gli afferrò la caviglia stringendola con forza:
- Dove credi di andare? - gli disse una voce che proveniva da sotto terra.
L’uomo si chinò cercando di liberare la sua caviglia da quella presa.
- Io non mi fermo - disse questo 
- Non ti crederà mai - insisteva la voce
- Non mi interessa
- Vuoi fare la fine dei tuoi compagni?  
- Perché no? - rispose l’uomo ridendo - Piuttosto che diventare come voi!
La risposta e la risata non piacquero al suo avversario che gli liberò controvoglia la caviglia quasi indispettito.
La ragazza vide avvicinarsi l’uomo:
- Cosa stai studiando? - le domandò
- Leucodistrofia metacromatica
- Stai preparando la tesi - continuò lui molto sicuro di sé
- Si... - rispose meravigliata
- Posso aiutarti se vuoi - sorrise lui
Lei cominciò ad essere diffidente: chi era questo? Da dove arrivava? Perché uno sconosciuto avrebbe voluto aiutarla...Mille altre domande le affollarono il cervello.
Lei era restia a fare amicizia, aveva molte paure che le impedivano di vivere serenamente anche le situazioni più banali che la vita le presentava.
Era da poco tempo che stava prendendo coraggio e cominciava ad uscire da sola, senza la compagnia di qualche parente stretto che la faceva sentire sicura e protetta, da quello che per lei poteva sembrare un pericolo per la sua incolumità.   
Lui, aspettando una risposta, la guardava con uno strano sguardo indagatore.
Si accorse di averla messa a disagio:
- Se vuoi puoi trovarmi qui - le disse porgendole un biglietto da visita.
Lei lesse distrattamente senza interesse il biglietto.
- Mi fermerò alti due giorni, non hai molto tempo per pensare - disse lui con una velata ironia - ora sai dove trovarmi.
Lui fece cenno di allontanarsi, ma la ragazza lo fermò:
- Come ti chiami?  
- Ver
- Ver... - mormorò ripetendo quel nome come se le ricordasse qualcosa che in quel momento le sfuggiva - Io mi chiamo Cristina - disse poi ad alta voce
- No - disse lui - non è quello il tuo vero nome.
Cristina lo guardò allontanarsi; era molto turbata: non capiva se doveva essere contenta di aver incontrato quel tipo. Malgrado le sue paure però sentì che Ver non le trasmetteva niente che le facesse pensare a qualcosa di pericoloso. 
Quando tornò a casa subito la sorella le chiese se stava bene e come fosse andata la mattinata. Cristina non raccontò dello strano tipo che aveva conosciuto sulla spiaggia, ma non appena entrò in camera sua, lesse e rilesse il biglietto che Ver le aveva lasciato: scoprì così che Ver era un medico volontario dell’ospedale che da pochi mesi era stato inaugurato.
Per raggiungere l’ospedale Cristina avrebbe dovuto superare molte delle sue paure: fare un lungo tratto di strada a piedi per raggiungere la metropolitana, ma soprattutto salire e viaggiare sulla metropolitana, cosa per lei impensabile.
Venne colta dall’angoscia e scoppiò a piangere.
La sorella, che la spiava da dietro la porta, entrò nella camera per consolarla.
Cristina le raccontò dell’incontro con Ver, porgendole il biglietto da visita, l’altra leggendone il contenuto si offrì di accompagnarla.
Improvvisamente Cristina strappò dalle mani della sorella il biglietto:
- No! - esclamò - E’ ora che prenda in mano la mia vita!
Pareva molto sicura di sé, il che sembrò far piacere alla sorella.
Cristina tanto tesa e ansiosa com’era, la notte non riuscì a dormire: immaginò di rimanere bloccata nella metropolitana, di essere aggredita in un angolo della strada...Era davvero terrorizzata.
Con questo stato d’animo affrontò la mattina seguente.
L’ospedale sembrava tremendamente lontano!
Il mondo sembrava le girasse intorno ad una velocità spropositata rispetto a lei che si sentiva ingoiare da un vortice senza fine.
Ebbe difficoltà a chiedere informazioni per trovare Ver.
Fu Ver a trovare lei :
- Ho appena terminato il mio turno, andiamo via da questo posto: è troppo triste!
- Dove andiamo? - chiese subito Cristina
- A casa mia.
La ragazza impallidì, Ver sorrise e la prese sotto il braccio con una certa confidenza.
Cristina sentì sparire la tensione, come quando era in compagnia della sorella o dei genitori. Non staccò gli occhi da Ver per tutto il tempo che ci volle per arrivare all’abitazione di lui.
Perché aveva il potere di rilassarla come fosse un suo parente?
Era la sola domanda che le occupò la mente.
 Ver alloggiava in una camera di un palazzo abitato clandestinamente da molti inquilini.
La povera Cristina in poche ore si trovò a dover affrontare tutto quello che aveva cercato di evitare per tutta la vita!
- Hai detto che mi avresti aiutato a preparare la tesi - disse subito allarmata quando vide Ver chiudere con il chiavistello la porta della stanza
- Ho detto che potevo aiutarti si, ma non ho parlato della tesi - ripose lui
- Allora vado via!
Cristina si precipitò sulla porta per fuggire, Ver le afferrò il braccio e la bloccò con la schiena al muro.
Cristina era in preda al panico: non riusciva a parlare, sentiva di non riuscire neanche a respirare, la vista si appannò. Si sentì svenire.
- Dimmi qual’è il tuo nome? - disse Ver
Cristina era paralizzata dal terrore, non riuscì a rispondere.
-  Devi dire il tuo nome! - strillò Ver
- Cristina! - urlò lei facendo forza su se stessa
- No!
- Si invece!
- Tu sai chi sono!
- No! - urlò lei poi scoppiò a piangere - Voglio tornare a casa lasciami andare!
Ver la lasciò libera. Cristina non si mosse.
Ver la guardò senza parlarle, ma Cristina sembrava non voler più andare via.
- Perché non esci? - le chiese lui
Cristina cominciò a guardarsi attorno: si trovava in una camera ordinata e pulita.
Una cosa attirò la sua attenzione: una carta geografica piena di note e simboli strani. Si avvicinò e guardò bene ciò che c’era scritto: malgrado fosse una lingua per lei misteriosa, nel vedere quei segni provò un senso di nostalgia.
Ver si avvicinò a lei, Cristina restò immobile ad osservarlo muta e un po’ frastornata.
Improvvisamente venne colta da una vertigine insopportabile che la fece quasi cadere a terra.
Ver l’aiutò a sedersi sul letto e si chinò davanti a lei:
- Possibile che non riesci a riconoscermi? - le chiese molto preoccupato
Cristina scosse la testa, non piangeva più ma continuava a singhiozzare.
- Guardami - disse ancora Ver avvicinandosi a lei.
Cristina lo fissò negli occhi. Sobbalzò:
- Cosa vedi? - chiese ansioso Ver
- Vedo una scena dall’alto come se volassi...
- Dimmi bene cosa vedi: è importante!
- Vedo un corridoio largo: sembra il corridoio di un palazzo nobile, raffinato, come una Reggia...Ci sono due persone...Un uomo e una bambina...Sono io quella bambina! Sto camminando lungo il corridoio: alla mia destra c’è una parete di vetro, una vetrata enorme, si vede fuori...Un cielo immenso azzurro luminoso, poi alberi...Tanti alberi! Poi vedo anche delle cascatelle, dei ruscelli...E’ un luogo bellissimo! L’uomo mi tiene per mano: è altissimo e vestito con un abito lungo bianco...o celeste...non capisco...Mi parla...Mi dice che mi sta portando dal mio nuovo Maestro, e che da quel momento sarà lui ad occuparsi di me. Entriamo in una stanza con tanti tavoli e molta gente che lavora, sembra un laboratorio di analisi chimiche...”Ti ho portato la tua nuova allieva” dice quello che mi tiene per mano. “ Najira!”... Sei tu! Appena mi hai visto mi sei corso incontro e mi chiami con quel nome...Ora mi tieni in braccio e ridi, sembri felice. L’uomo vestito di bianco mi prende fra le sue braccia e mi mette su uno dei tavoli della stanza, mi coccola...è molto affettuoso. “Non sarà un po’ troppo piccola?” gli chiede un altro tipo che si è avvicinato a noi...è altissimo anche lui, come l’altro ha un abito lungo ma più scuro sembra verde...Mi dà un pizzicotto sulla guancia e sorride, io gli prendo la treccia fra le mani: ha i capelli neri raccolti in una treccia lunghissima. “Tu torna al tuo lavoro” dice a te. Ti allontani. “No non è piccola” dice quello vestito di bianco, “Se lo dici tu”, gli risponde quello con la treccia. Ora entra un bambino...tutto sudato, cade anche, si dirige da quello che mi ha condotto in quel laboratorio, lui lo prende in braccio e se lo carica sulle spalle come un capretto...Ridono...ridiamo tutti...C’è un senso di pace e di allegria meravigliosi! Loro vanno via, quello con la treccia si rivolge a me “Sei contenta di imparare le stesse cose che sta imparando tuo fratello?”, tu allora mi sorridi e fai cenno di si con la testa...Tu sei mio fratello...Mio fratello!? Io non ho fratelli! - Cristina si spaventò dinuovo si alzò dal letto e guardò Ver che sembrava commosso - Cosa mi stai facendo? - gli strillò Cristina - Cosa vuoi da me?
Ver avanzava verso Cristina che retrocedeva.
Ver riuscì ad avvicinarla, le strinse le mani nelle sue:
Cristina ebbe altre visioni:
- Cos’altro vedi? - le chiese Ver visibilmente commosso
- Sono più grande, come sono ora, ma in un altro posto...Sembra un’astronave come quelle dei Film...Il cielo è nero...dalle finestre non si vede altro che cielo nero...non ci sono più gli alberi, solo una superficie arida, astratta...Non so, si respira un ché di triste...sembriamo prigionieri...chi incontro ha un’espressione preoccupata. L’uomo con la treccia...sono insieme a lui...lo chiamo per nome: ho molta confidenza con lui... passeggiamo...Non sono più sull’astronave ma altrove, fuori all’esterno...L’uomo con la treccia mi consegna delle cose e mi abbraccia fortissimo “Vedrai che ritroverai tuo fratello” mi dice, poi mi bacia la fronte: “Buon viaggio” mi dice...Sono partita...per andare dove?      
- Najira! - esclamò Ver - Tu mi devi riconoscere! Tu devi venire via con me!
Cristina era agitata ma non aveva più paura.
Si sedette dinuovo sul letto, portò le mani sulle tempie stringendole forte.
Si sentì stretta da una serie di immagini, confuse nella loro sequenza ma nitide come se fossero reali, che la tormentavano. 
Vedeva se stessa impegnata in studi scientifici in compagnia di Ver e molti altri guidati dagli insegnamenti di più persone capitanate dal solito tipo con la treccia: questo era sempre sorridente e proiettava intorno a lui un alone di dolcezza e benessere rasserenanti.
Vedeva grandi sale luminose piene di colori evanescenti e di musica.
Poi di colpo si vide da sola.
Era lei ma non si riconosceva: viaggiava spostandosi con una sicurezza e un’autonomia che non pensava di aver mai avuto.
Sentiva la voce (a volte lo vedeva anche) del solito tipo con la treccia che l’aiutava e le indicava cosa doveva fare e dove andare.
Anche lei aveva una mappa come quella di Ver.
Si vedeva impegnata a scrivere delle dettagliatissime relazioni che descrivevano lo stato di salute di chi aveva conosciuto durante i suoi viaggi e le terapie che aveva utilizzato per curare costoro.
Vide un cerchio che brillava nel cielo con bagliori d’oro e d’argento. Improvvisamente un’esplosione al centro del cerchio.
Il cielo diventa gelido.
Dal centro del cerchio partono dei fuochi come Stelle Comete.
Poi il buio.
Di colpo si rivide come era: non più Najira ma Cristina, affetta da gravi attacchi di panico sempre chiusa in casa, in compagnia costante della sorella.
Cristina si aggomitolò sul letto e rimase a fissare con occhi persi in una malinconia profonda la carta geografica che Ver teneva appesa sulla parete che lei aveva di fronte.
Ver si sedette a terra con la schiena appoggiata sul letto e cominciò a parlare:
- Accadde all’improvviso, bastò il tempo di un ghigno di una risata e tutto si capovolse. Il cielo venne coperto da un drappo pesante, pesante e nero come il piombo, per impedire alla luce di uscire e farsi vedere. Il cielo venne ridisegnato, i pianeti vennero inclinati, tutto da allora fu scisso, frammentato, allontanato, creando false distanze per impedire ogni forma di comunicazione. Ogni essere venne avvolto in un sonno che non dava riposo. Partimmo tutti, tutti da soli. I nostri Maestri ci accompagnarono: ci consegnarono i loro doni, gli unici mezzi che ci consentono di rimanere in contatto con loro e poter continuare a seguire le loro indicazioni. Fummo tutti separati con l’ordine di non farci riconoscere da nessuno e mantenere il segreto finché non fosse stato possibile rivelare chi davvero eravamo. E’ stato un distacco doloroso per tutti, nessuno si è salvato, anche chi avrebbe dovuto essere intoccabile è stato colpito. Tu hai pregato di poter partire insieme a me, ma non è stato possibile, però io e te eravamo in contatto, io sapevo sempre dove ti trovavi e cosa facevi. Abbiamo viaggiato visitando tutte le galassie, abbiamo conosciuto tanti popoli che un tempo erano felici e che ora vivono nella sofferenza, ma noi siamo medici e possiamo intervenire e aiutare molta gente. Siamo stati onorati come se fossimo dei Maghi miracolosi che compivano prodigi.
Ma il nostro compito non era, e non è, incantare ma riconoscere e riunire chi è come noi, trovare chi vuole che tutto torni come un tempo, e strappare una volta per tutte la cappa che vuole oscurare la memoria. Ma i nostri nemici non vogliono  farci ritrovare, perché sanno che quando ci ritroveremo tutti, il loro destino sarà segnato: saranno perduti e costretti alla resa! Tu avevi riconosciuto molti dei nostri compagni, avevi formato una bellissima equipe, sembravate inattaccabili. Ma quello che è accaduto a molti di noi è accaduto anche a voi. Molti dei nostri compagni sono stati riconosciuti dai nostri avversari, intercettati e resi inoffensivi...
- Chi sono i nemici di cui parli? - chiese Cristina ipnotizzata dal racconto di Ver
- C’è una guerra: noi siamo i guerrieri. I nostri nemici hanno il potere di creare grandi illusioni, si nascondono dietro false immagini, abbagliano chiunque con le loro parole e le loro promesse, hanno relegato noi e quelli come noi all’esilio, hanno fatto credere che siamo dei pazzi, e molti nostri compagni sono impazziti davvero: si sono persi, ci hanno dimenticato. I nostri avversari sono pericolosi e noi dobbiamo fermarli! Tu li riconoscevi sempre: li vedevi affiorare da un lago, vedevi i loro occhi nascosti nelle cortecce degli alberi, nei sorrisi di chi si mostrava gentile. Riconoscevi i loro messaggi criptati. Eri diventata pericolosa. Così anche loro ti hanno riconosciuta. Tu per nasconderti hai inventato un nuovo nome, Cristina, sia io che il nostro Maestro eravamo contrari a questo tuo stratagemma ed avevamo ragione. Come per molti dei nostri compagni su di te è stato fatto un incantesimo. Io ero su un pianeta vicino a questo quando ho saputo cosa ti avevano fatto. Stavo curando gli ultimi bambini rimasti là, ma ho lasciato tutto e sono venuto a cercarti per riportarti con noi. Non ho trovato pace finché non ho saputo chi eri diventata e cosa facevi. Quella che tu credi essere la tua famiglia non lo è affatto: hanno fatto in modo che tu fossi paralizzata da paure ingiustificate, ti spiano ti tengono sotto controllo perché non vogliono che tu ricordi chi sei veramente.
- I miei genitori e mia sorella sono così preoccupati per me, come puoi offenderli in questo modo? - replicò lei
- Loro non sono né i tuoi genitori né tua sorella: io sono tuo fratello! Tu devi abbandonare quella gente e venire con me per tornare alla tua vera famiglia! - Ver
si voltò verso Cristina e cercò di abbracciarla - Non ho molto tempo, ti prego vieni via con me! Ora che ti ho ritrovato non ti posso lasciare nelle loro mani!
- Cosa mi stai dicendo? - Cristina si agitò di nuovo e si alzò dal letto - Di cosa parli? Io non credo a queste cose! - Cristina camminava nervosamente nella stanza guardando in basso, poi si voltò verso di lui e urlò - Sei un pazzo! Un paranoico! Un mitomane! Io non c’entro niente con le tue fantasie! Io me ne torno a casa dalla mia vera famiglia!
- Io non ti sto trattenendo - le rispose Ver con calma - dici che vuoi andartene, ma sono due ore che tu continui a rimanere qui.
Cristina si fermò. Era incerta e confusa.  
- Se tu vuoi puoi tornare alla vita che credi sia la tua - indicò un libro - quella è la tua tesi: è già pronta devi solo studiarla, ma se tu verrai con me potrai ricordarti chi sei davvero...Tu non hai bisogno di quel libro tu sai molte più cose di tutti i tuoi professori messi insieme! Ti prego, prova a credermi!
Cristina rapidamente afferrò il libro: era la tesi che stava preparando lei, con il suo nome e tutti i dati esatti.
Ver la guardava angosciato. 
Cristina voltò le spalle e andò via con il libro.

I DORMIENTI

Nell’ora più buia della notte, quando le strade di tutte le città, anche le più trafficate, erano deserte e mute: quattro fiamme d’argento si tuffarono dal cielo.
Saettavano velocemente fra i palazzi, scivolavano sulle strade, lasciando dietro di loro un leggero profumo di fiori.
Si avvicinavano alle poche persone che incontravano.
Solo alcuni le vedevano.
Altri, malgrado queste si accostassero moltissimo, ne ignoravano assolutamente la presenza.
Alcuni avvertivano a malapena il profumo.
Una di queste luci passò sulle teste di un piccolo gruppo di poliziotti.
- Cos’era? - disse uno
- L’hai vista pure tu?
- Si anch’io.
La luce sentendo queste parole invertì il suo volo e tornò indietro dai poliziotti.
Si fermò di fronte alla faccia di uno di questi, uno a caso.
Gli altri la guardavano impietriti.
La luce si muoveva come un’anguilla sospesa per aria.
Ad un certo punto con un movimento repentino, come fosse un cobra, avvolse il poliziotto che aveva puntato.
Questo cadde a terra svenuto, gli altri spaventati fecero un passo indietro.
La luce sciolse la sua morsa, e minacciosa volò di fronte a tutti gli altri, ormai terrorizzati.
Il poliziotto si svegliò ed i suoi amici subito lo aiutarono ad alzarsi: 
- Come stai?
- Ti portiamo al Pronto Soccorso!
- No non vi preoccupate, sto bene.
Lo guardarono perplessi.
- Davvero sto bene
- I tuoi occhi!
- Sto bene vi dico, cos’hanno i miei occhi?
- Hanno cambiato colore!

Le quattro luci si diressero verso le loro mete.

Una entrò nella casa di alcuni ragazzi.
Si fermò di fronte Marcel che dormiva sereno.
Marcel era un ballerino.
Viveva momentaneamente in quella città perché era stato scritturato da una scuola di teatro per dirigere un seminario di danza tribale.
La luce volò su Marcel che cominciò ad agitarsi.
Più la luce aumentava la velocità del suo volo, più Marcel si dimenava.
Finchè non si svegliò.
La luce sparì.
Marcel avvertì il profumo, portò una mano sulla fronte e sorrise.

Una luce entrò in un palazzo abbandonato, fatiscente.
La luce si proiettò giù per le scale, verso le cantine.
C’era molta gente che abitava là.
Dormivano tutti.
La luce cercava Alan, un Hacker.
Dormiva in un sacco a pelo circondato dalle sue macchine.
La luce entrò nella stanza dove Alan riposava.
Si aggomitolò su se stessa formando una sfera d’argento.
Iniziò allora a fluttuare nella camera sfiorando tutto ciò che era intorno ad Alan. 
La radio e la televisione si accesero a volume altissimo, gli schermi dei computer visualizzarono dati che si alternavano impazziti, un orologio cominciò a far scorrere le lancette in senso anti-orario, un altro orologio fece scattare la sveglia.
Alan si svegliò di soprassalto con la sensazione di non avere aria da respirare.
- Ti spaventi tutte le volte!   
Era la luce che aveva parlato, con tono sardonico, ferma alle spalle di Alan.
Rise anche.
Alan si sdraiò dinuovo nel sacco a pelo: rise anche lui.

La terza luce si fermò in un giardino, di fronte alla finestra di un appartamento elegante.
Lì insieme alla sua ragazza c’era Gerard.
Gerard era un ragazzone massiccio un ex pugile.
Si trovava in casa della sua ragazza con la quale avrebbe dovuto trascorrere il compleanno.
Lui aveva un bel camper, e dato che i due si incontravano raramente, Gerard aveva promesso alla sua morosa che, come regalo, avrebbero trascorso alcuni giorni insieme sul camper in giro, come turisti, come in vacanza.
Sarebbero dovuti partire l’indomani mattina.
La luce entrò di prepotenza nella camera, dov’erano Gerard e la sua fidanzata, spalancando le finestre come fosse un tornado.      
Gerard cominciò a guardare la luce che compiva un volo circolare sul soffitto.
- Mi chiama! - disse Gerard
- Ancora queste follie!
- E’ qui!
Gerard fissava la luce che continuava a ruotare vorticosamente sul soffitto.
Lei furiosa si alzò dal letto e chiudendo le finestre cominciò a urlare:
- Chi è qui? Tu sei matto! - prese i vestiti di Gerard e glieli lanciò addosso.
Gerard si rivestì tenendo sempre i suoi occhi fissi alla luce che continuava a roteare in alto nella camera; anche lei guardò verso il soffitto ma non vide niente:
- I pugni che hai preso ti hanno sbriciolato il cervello! - strillò - Sparisci dalla mia vita! Te e tutte le tue fantasie!
Lei sempre più furiosa le lanciò tutto quello che trovava a portata di mano.
Gerard stava per uscire, ma si fermò a guardare la ragazza, avrebbe voluto parlare, ma lei glielo impedì:
- Vattene! Non ti voglio più vedere!
Gerard andò via seguito dalla luce.
La ragazza si lasciò cadere seduta sul letto e scoppiò a piangere.

La quarta luce, la più grande, volava sinuosa come un drago d’argento verso la casa dove alloggiava Andrè.
Andrè era un ragazzo introverso dalle poche parole, ma essenziali quasi lapidarie.
Figlio unico di una famiglia piuttosto ricca, aveva da subito mostrato tratti ribelli nel suo carattere.
Il padre lo voleva avvocato, lui decise di studiare antropologia specializzando le sue ricerche in campo musicale.
Studi che peraltro non terminò mai.
Aveva piantato la sua fidanzata, il giorno del loro matrimonio, proprio sull’altare nel bel mezzo della cerimonia, lasciando di stucco tutti gli invitati.
Uscito dalla cattedrale andò in banca prese tutti i suoi soldi e abbandonò tutti.
La sua famiglia da quel giorno non seppe più nulla di lui.
Andrè iniziò a vivere da nomade, mantenendosi con lavori occasionali.
Era pieno di iniziativa e apprendeva velocemente, per lui quindi, non era difficile adattarsi a qualsiasi situazione.   
In quei giorni viveva in casa di un anziano signore del quale si prendeva cura.

La luce se ne stava ferma di fronte la finestra: osservava Andrè che dormiva avvolto dalle coperte; da quella massa di stoffa emergeva a malapena la testa.  
La luce entrò attraversando i vetri.
Toccò terra.
Altissima e brillante, come una colonna, restò immobile in un angolo della camera.
La luce si mosse trasformandosi in un uomo alto, vestito da una lunga tunica   bianca, con una cintura azzurra stretta sulla vita.
Si sedette accanto ad Andrè, che ancora addormentato si girò a suo favore.
L’uomo appoggiò la sua mano sul cuore di Andrè.
Il ragazzo fu attraversato da un calore che vibrava e si espandeva dentro di lui.
Andrè si agitò. L’uomo sorrise. Andrè aprì gli occhi.
Vide una figura chiara, evanescente, luminosa che lo guardava.
Andrè riconobbe quegli occhi di un verde profondo, dallo sguardo intenso e misterioso: tanto dolce quanto rigoroso, che metteva soggezione.
- Sei tu? - mormorò Andrè
L’uomo annuì rassicurandolo:
- Il Principe della Luna - disse Andrè incantato
Il Principe sorrise dinuovo:
- Seguimi - sussurrò con voce carezzevole.
Ma quello non era un invito era un ordine. 

Andrè si ritrovò per strada in pigiama a piedi nudi.
Camminò sul selciato che era umido come se avesse smesso di piovere da poco.
Ai suoi occhi sembrava la città in cui viveva in quei giorni, ma non riconosceva i palazzi; le strade gli apparivano nuove.
Più che una città viva ed abitata, sembrava una scenografia teatrale.
Il buio e la scarsa illuminazione rendevano tutto tremendamente tetro.
Andrè era assolutamente solo.
Avvertiva la presenza del Principe alle sue spalle, ma se provava a voltarsi questo spariva immediatamente.
Con la coda dell’occhio intravedeva la sua lunga veste bianca.
Lo sentiva camminare vicino a lui.
Una luce accesissima proveniva da una porta aperta sull’angolo di un edificio.
Arrivò vicino a quella porta e si affacciò all’interno.
Sentì le dita del Principe appoggiarsi sulla sua schiena:
con una lieve pressione lo spinsero ad attraversare la porta ed entrare.
Andrè obbedì, anche questa volta, come sempre.
Scese tre gradini ed entrò in una camera rettangolare, non troppo piccola, intonacata di bianco, ma forse da molto tempo. 
In fondo, difronte all’ingresso, un grosso crocefisso di legno scuro, sembrava antico, appena sotto il crocefisso un inginocchiatoio.
Andrè era perplesso si guardò intorno smarrito.
Alla sua destra una grossa cassettiera dello stesso legno scuro, come l’inginocchiatoio e la croce appesa alla parete.
Sulla parete su cui era appoggiata la cassettiera c’era un affresco.
Andrè era percorso da un certo malessere.
Provò anche un grosso disagio, nel osservare l’affresco.
Rappresentava dei nani che forse saltellavano o forse danzavano.
Intorno ai nani era anche dipinto un filattero.
Sul filattero c’erano delle parole, ma Andrè non capiva ciò che era scritto:
era una lingua che lui non aveva mai visto prima, i caratteri gli parevano arcaici.
Malgrado sembrasse l’illustrazione di una fiaba, Andrè continuava a provare senso disappunto e nervosismo.
Continuava a non capire.
Si avvicinò a lui un ragazzo molto alto, più alto di lui.
Era un sacerdote, l’abito che indossava era quello dei sacerdoti di molti anni addietro: un lungo abito nero.
Andrè si convinse che si trattava senza dubbio un giovane sacerdote, ma lo guardò con curiosità: ai suoi occhi sembrava più un fotomodello che un prete.
Questo si rivolse ad Andrè, come se lo stesse aspettando, come se si trovasse là apposta per lui.
Con fare gentile illustrò ad Andrè l’affresco, gli spiegò ogni cosa come un insegnate di storia dell’arte fa con i suoi scolari.
Tradusse il significato delle misteriose parole scritte sul filattero.
Andrè seguiva attento, ma sentiva che ogni cosa che imparava la dimenticava subito dopo averla ascoltata.
Era disorientato.
Dove era stato condotto?
Il giovane prete era sempre sorridente.
Andrè quasi senza accorgersene si voltò alla sua sinistra.
C’era l’ingresso ad una seconda camera.
Si affacciò e guardò all’interno.
Con un piede quasi entrò in una camera chiara, rivestita di marmi e stucchi raffinati, con un soffitto bianco a volta a botte.
Nella parete in fondo credette di riconoscere un altare o qualcosa di simile ad un altare.
Di fronte all’altare non molto lontano da lui c’erano delle panche anche queste di legno scuro e massiccio.
Sulle panche c’erano sdraiate, adagiate su un fianco, sei persone vestite con un abito di seta di un bellissimo celeste, sulla testa un cappuccio di seta rosa.
Niente di loro era visibile: erano completamente coperti:
il cappuccio calato fino alle spalle e l’abito che scendeva oltre i piedi.
Andrè si sentì avvinghiare da un senso di sgomento.
Ai suoi occhi parevano dormire, ma in cuor suo aveva la certezza che quelli fossero uomini che lo stavano osservando.
Che lo studiavano.
Che sapessero già tutto di lui.
Che, proprio perché dormivano, vedevano e sentivano ogni cosa in ogni luogo della terra.
Andrè si sentiva scrutato, era certo che fossero uomini, ed era certo che loro lo conoscessero.
Era certo di essere entrato in un luogo dove fosse custodito il Potere.
Ma perché aveva tutte quelle certezze non lo capiva.
All’improvviso provò vera paura a stare lì.
Ebbe la sensazione di essere entrato dove non doveva.
Di aver visto qualcosa troppo presto, rispetto a quando avrebbe dovuto.
Fece un passo indietro e si allontanò da quella camera.
Tornò subito sulla strada.
Ancora buia, ancora con il selciato umido.
Ad una certa distanza da lui, ritrovò il Principe.
- Dove mi hai portato? - gli chiese ansioso
Il Principe non rispose, ma lo guardava immobile e altero.
- Perché mi hai condotto qui? - chiese ancora Andrè
- E’ ora di muoversi - gli rispose l’altro
- Cosa devo fare?
- Domani mattina partirete: tu ed i tuoi amici
- Ma domani Gerard va via con la sua ragazza...
- Domani Gerard partirà con te - ribadì sicuro il Principe
- Ma come è possibile? Hanno programmato una vacanza di una settimana...
- Non ti permetto di mettere in dubbio ciò io che ti dico! - strillò il Principe con  severità fiera che intimorì Andrè:
- Perdonami!
Il Principe annuì sorridendo.
- Una volta lasciata la città, come faccio a sapere dove devo andare?
- Segui i tuoi sogni, come hai sempre fatto - gli rispose affettuosamente il Principe - non puoi sbagliare
- Tornerai?
- Con la prossima Luna - rispose il Principe indicando il cielo.
Andrè alzò gli occhi seguendo il gesto del Principe, e vide il sottile arco argentato della Luna che cominciava a crescere.

Erano le prime luci dell’alba.
Andrè venne svegliato dalla suoneria del suo telefono.
Rispose immediatamente.
Alan camminando di fretta si stava avvicinando al portone del condominio dove alloggiava Andrè.
Dalla parte opposta del marciapiede, Marcel più lentamente si stava avvicinando al portone del condominio dove alloggiava Andrè.
Stupiti si ritrovarono tutti e due simultaneamente di fronte al citofono, con l’intento di chiamare il loro comune amico.
Si guardarono meravigliati, poi si misero a ridere.
Sentirono il rumore di un motore avvicinarsi alle loro spalle, si voltarono.
Riconobbero il camper di Gerard.
Ancora più meravigliati lo guardarono parcheggiare di fronte al portone.
Gerard scese dal camper.
- Ma tu non dovevi partire con... - cercò di chiedere Marcel
- Non tocchiamo questo tasto! - rispose accigliato Gerard suonando immediatamente il citofono per chiamare Andrè
- Cosa è successo? - chiese rattristato Alan
- Questa volta mi ha liquidato sul serio - rispose Gerard 
- Vuoi che le parli io?
- No no - Gerard agitò la testa - è andata su tutte le furie e mi ha sbattuto fuori casa - continuò sorridendo - per tutta la notte non ho fatto altro che girovagare col camper... - suonò ancora il citofono.
Andrè ancora al telefono si affacciò dalla finestra facendo cenno ai tre amici di salire. Mentre digitava sul suo telefono, aprì loro la porta dell’appartamento.
- Bonjour mon ami - disse Marcel
Andrè agitò una mano sussurrando di non fare chiasso.
Terminò la telefonata.
- Cosa ci facciamo tutti e quattro qua? - chiese Alan?
- Aspettiamo che venga qualcuno a sostituirmi per non lasciare solo il signore - rispose Andrè indicando la camera dove dormiva il padrone di casa a cui dava assistenza - fra poche ore partiamo
- Dove andiamo? - chiese Marcel
- In Irlanda - rispose Andrè
- Insomma la vacanza la faccio con voi! - rise Gerard
Andrè sorrise mentre gli altri due strinsero fra loro Gerard prendendolo in giro.

L’ARCIERE
                                                        
Greg era sulle spine. Pensava e ripensava.
Prese il cannocchiale e puntò verso il pianeta Venere.
Sbuffò, ripose il cannocchiale e si sedette alla scrivania deciso a scrivere una lettera. Scrisse velocemente, poi tornò alla finestra e la lesse ad alta voce:
- La situazione è stagnate, lei si ostina a rimanere salda nelle sue abitudini, ma sono sicuro che è attratta da noi, ma sono altrettanto sicuro che se decidesse di prendere una posizione chiara potrebbe fraintendere e spostarsi dalla parte sbagliata. Quel cavolo di fidanzato che si ritrova non serve a niente! Ho cercato di coinvolgerlo ma è pigro! Un’ameba! Non lo smuovi neanche con le cannonate! Basta che s’ingozza di panini e lui è tutto contento! Ti prego dammi una mano, un suggerimento, inventati un trucco, insomma: fai qualcosa!
Allorché bruciò la lettera e soffiò la cenere verso il cielo.
La cenere si trasformò in una polvere metallica dal colore indefinibile e cangiante, per poi svanire nel nulla.
Greg riprese il cannocchiale e puntò la sua osservazione verso il pianeta Urano che cominciò a pulsare accendendosi di una luce fosforescente.
Greg lasciò andare un lungo sospiro si sollievo.
La sua camera scomparve, Greg si ritrovò immerso in una nebbia densa argentata attraversata da scariche elettriche che la illuminavano di rosso.
Un boato.
Greg fece un ampio inchino appoggiando un ginocchio sul pavimento metallico su cui vedeva riflessa la sua immagine. 
Un secondo boato.
Greg si rialzò in piedi.
Vide avanzare verso di lui una sagoma umana affusolata, ma poco riconoscibile perché rimaneva nascosta dalla nebbia. 
- Mi hai chiamato?
- Fatti riconoscere, io non parlo se non sono sicuro di sapere chi ho davanti.
La sagoma alzò il braccio con il palmo della mano verso l’alto.
Una sfera luminosa apparve sulla sua mano.
La sfera si spaccò lasciando uscire la fiamma di un fuoco spaventoso.
- Sei più sereno adesso?
- Ti ringrazio - rispose Greg con un secondo inchino
- Allora cosa sono tutte queste preoccupazioni? - chiese l’altro che, richiudendo la mano, fece sparire il fuoco - A me sembrava stesse andando tutto bene, o no?
- Non saprei - rispose Greg grattandosi la testa - Non so più cosa inventarmi...
- Tu vuoi che venga di persona
- Magari - disse Greg imbarazzato stringendo le spalle
- Domani sarò da te. Sai cosa devi fare
- Oh Grazie! Grazie! - sospirò ridendo Greg - Ti ringrazio tanto! Sei un amico!
L’amico di Greg scomparve.
La nebbia sembrò essere risucchiata da una porta invisibile.
Greg si ritrovò in casa sua.
Saltellava felice alzando le braccia al cielo in segno di vittoria. 

La mattina seguente Greg terminò le sue lezioni ed entrò nell’ufficio dove c’erano gli altri insegnanti.
Greg insegnava l’applicazione di nuovi programmi da inserire on-line su WEB agli impiegati di un piccolo ufficio a Maningrida, nella Terra di Arnhem, in Australia.
Si avvicinò a Camilla, un’altra insegnante:
- Avevi promesso - le disse - allora vieni?
- E’ vero! - esclamò lei come se cadesse dalle nuvole - Mi sono dimenticata, ora ho tutta la giornata occupata - rispose lei estraendo l’agenda dalla borsa
- Togli quell’agenda altrimenti la butto dalla finestra!
Camilla rise, anche gli altri loro due colleghi presenti risero.
- Avevi promesso che saresti venuta al campo almeno oggi!
- Hai ragione ma ho preso altri impegn...
- Piantala! - esclamò Greg prendendola per il polso trascinandola fuori - ma cosa sei una martire della scuola e del lavoro? Quand’è che pensi un po’ a te?
Camilla cercò di rispondere, ma Greg salendo sulla sua moto la costrinse a seguirlo. Camilla molto divertita decise di fare uno strappo alle sue regole e di andare a casa prendere l’arco e le frecce per allenarsi con Greg.  
Il campo era vicino casa di Camilla, tanto vicino che lo raggiunsero con una breve passeggiata, durante la quale, Greg accennò a Camilla di un suo amico che proprio quel giorno sarebbe venuto a trovarlo per allenarsi con lui.
- E’ il mio Maestro di Tiro con l’Arco - specificò Greg - vedrai è un tipo speciale!
Ma l’amico di Greg si fece attendere non poco. Un bel po’, parecchio, troppo.
Greg cominciò a perdere la pazienza, e iniziò a guardare l’orologio sempre più insistentemente, sbuffando e brontolando.
- Non è che mi stai facendo perdere una giornata? - sorrise spiritosa Camilla - Lo sai che avevo un sacco d’impegni
- E’ un pazzo! - esclamò nervoso - Ci fosse una volta che arriva puntuale ad un appuntamento!
Un frastuono attirò l’attenzione di tutti i presenti nel campo.
Si voltarono notando un gran polverone e una strana macchina che stava parcheggiando velocemente vicino alle auto e le moto.
- Eccolo! - esclamò Greg, poi sbracciandosi - Vieni spicciati siamo qui!
Un ragazzo armato di arco e frecce, a torso nudo con bermuda a fiori dai colori sgargianti, molto larghi, lunghi fino alle ginocchia e due pantofole a infradito, corse verso di loro, agitando le braccia.
- E’ mai possibile!? - strillò Greg al suo amico - E’ un’ora che ti aspettiamo!
- Scusami! - rispose trafelato il suo amico
- Scusami un accidente! - continuò Greg arrabbiato - Ogni volta è la stessa storia!
- Ma cosa credi che sia facile per me venire fino qui? - si difese l’altro
- Di tutti sei l’unico che ha problemi! Cos’hai meno degli altri: l’orologio?
Il suo amico continuò a giustificarsi, Greg continuava a rimproverarlo.
I due si sovrastavano con insulti e strilli, mentre della presenza di Camilla neanche fecero caso:
- Fatela finita! - strillò 
Greg e il suo amico si voltarono verso di lei, quasi sorpresi della sua esistenza.
- Tu! - disse Camilla a Greg - Almeno presentami al tuo amico!
Il ragazzo si voltò verso di lei, sospendendo i bisticci con Greg:
- Chi è questa graziosa donzella? - chiese
- Beh, graziosa non direi... - disse Camilla
(In effetti Camilla non era proprio una bellezza, anzi era piuttosto racchietta)
L’amico di Greg le fece un piccolo inchino e le sorrise.
Camilla fu immediatamente colpita da quel giovanotto: aveva la carnagione abbronzata, i capelli lunghi piuttosto spettinati, nerissimi, che incorniciavano un paio di occhi blu, un blu strano cangiante innaturale. Camilla non aveva mai visto occhi così, non le sembravano occhi umani, occhi di un gatto semmai.
- Lei è Camilla. Lui è il mio amico di cui ti avevo parlato: Uriel
- U...U che? Che razza di nome è? - Camilla fece davvero fatica a capire   
 - Uh? - mormorò Uriel, poi voltandosi verso Greg: - Come sarebbe? Mi fai venire fino qua e questa non conosce nemmeno il mio nome?
I due ricominciarono a bisticciare, mentre Camilla offesa quasi parlava da sola:
- A questa! Questa a chi? Te l’ha insegnata nessuno l’educazione?- ripeteva ad Uriel - Ehi tu! Sei un bel cafone lo sai?
Ma i due continuavano a litigare con argomentazioni che Camilla non capiva.
Come spesso accade quando si litiga riemergono sempre avvenimenti estranei e lontani dalla circostanza contingente.
Proprio questo stava accadendo anche fra Uriel e Greg.
Camilla li sentiva far nomi di luoghi e persone sconosciute e spesso i due pronunciavano parole che le sembravano tortuose ed indecifrabili.
- Insomma! - strillò infine Camilla - Se dobbiamo allenarci alleniamoci, se dovete litigare me ne vado! Ho da fare io!
Uriel prese il suo arco e come se niente fosse iniziò a tirare. 
Camilla rimase di stucco.
Così di colpo, Uriel aveva cambiato atteggiamento, era serio e concentrato preso a tirare le sue frecce con una maestria invidiabile.
Greg sorrise nel vedere Camilla così sorpresa:
- E’ in gamba vero? - le disse - E pensa che fra tutti lui è il peggiore!
- Tutti chi? - chiese Camilla
- Parla dei miei fratelli - le rispose Uriel con lo sguardo fisso sul bersaglio - Beh! - la rimproverò - Non stare lì a fissarmi, devi tirare anche tu mica sei venuta a guardare me!
-Che tipo! - brontolò Camilla.
Si allenarono con una notevole concentrazione.
Finché durò.
Uriel cominciò a distrarsi: si guardava intorno, dimenticava di tirare, origliava le conversazioni delle persone che avevano intorno.
Greg lo studiava con lo sguardo torvo: 
- Uriel! - disse seccato - Vedi di tirare e non combinare guai!
Uriel sorrise.
Sembrava che tutto fosse sotto controllo.
Ma Greg conosceva bene il suo amico e aveva ragione ad aver paura.
Proprio mentre stava schioccando la freccia Uriel notò un cagnolino correre poco distante da loro, verso un giardino: l’area riservata a chi non si allenava.
Uriel si voltò per guardare il cagnolino; la freccia partì, passando vicinissimo ad una persona che prima si spaventò poi corse verso di lui furioso.
- Lo sapevo! - sospirò Greg
- Ma sei imbecille!? - strillò il signore minacciando Uriel con un pugno
- Mi dispiace - Uriel si scusò - sinceramente, non volevo!
- Uriel è meglio che andiamo - disse Greg
- Mi volevi cavare un occhio? - continuava l’altro che spintonava Uriel.
Uriel continuava a scusarsi con un candore irritante, mentre Greg lo tirava per un braccio allontanandolo. Camilla era allibita.
Si avviarono al parcheggio; Greg era arrabbiato, Uriel invece rideva a crepapelle.
- Tu sei tutto matto! - sorrise Camilla
- Allora? Adesso che si fa? Dove si và? - domandò Uriel guardando gli altri due    
- Io ho da fare - disse subito Camilla - sono già le le 15.00: alle 16.40 ho le prove per la recita dei bambini dell’asilo, alle 18.15 devo passare alla tintoria per ritirare un vestito di una mia amica, alle 19.26 ho l’appuntamento dal parrucchiere, alle 20.30 devo andare a prendere il mio ragazzo perché alle 21.00 devo andare a cena a casa di mia nipote...
- Ma che sei un soldato?! - esclamò Uriel portando una mano sulla fronte
- Che ti avevo detto? - gli disse Greg
- Dove è cresciuta questa, in una caserma? - continuò Uriel ridendo
- Ma che ne so! - brontolò Greg
- Non ricominciate adesso! E tu impara a parlare, io mi chiamo Camilla, capito?
- Sai andare sul serf? - domandò Uriel a Camilla, ma non aspettò la risposta - C’è
una spiaggia meravigliosa qua vicino andiamo andiamo...
- No ragazzi io ho...
- Su su! - rise Uriel
- Non preoccuparti - le disse Greg - avrai il tempo di arrivare alla tua cena pettinata e profumata.
- Dai sali - disse Uriel
- E questa cosa cos’è? - domandò stranita Camilla
- La mia macchina - rispose Uriel
- E’ un inventore - rispose Greg
- L’hai creata tu?
Uriel annuì sorridendo tutto soddisfatto.
Era una strana machina a tre ruote, bassa e larga, verniciata con colori metallici, che riflettevano così tanto la luce da essere accecanti. 
I tre salirono a bordo.
Senza dar loro il tempo di accomodarsi nell’abitacolo, Uriel fece partire la sua macchina alla velocità di un razzo. Camilla strillò. Greg scoppiò a ridere.
- Ti prego vai piano! - strillò Camilla
- Non avevi fretta? - le chiese Uriel
- Non più...Vorrei arrivare viva alla mia cena!
- Non ti preoccupare finché ci sono io non ti può capitare niente di rischioso! - rispose Uriel voltandosi verso di lei.
- Non ne sono così sicura...E guarda la strada! - poi esclamò - Oh mio Dio!
- Perché ci vengono incontro tutte queste macchine? - chiese Uriel
- Non ci vengono incontro: stai andando contro mano - sospirò rassegnato Greg.
Appena sentito questo Uriel fece una repentina inversione.
Tutte le auto che arrivavano frenarono bruscamente, si creò un ingorgo con clacson che strombazzavano e gente che urlava insulti e maledizioni verso la macchina di Uriel che a velocità spropositata si era già allontanata.
Camilla appoggiò una mano sulla guancia:
- Ma che ho fatto di male? - mormorò sconsolata, ma anche molto divertita
- Semmai è quello che non hai fatto - disse Greg
- Andiamo là! - esclamò Uriel indicando il mare.
Voltò alla sua sinistra e uscendo di strada lanciò la macchina sulle dune.
La macchina di Uriel balzava e ricadeva fra le dune, come se rotolasse senza controllo.
- Oh Gesù, Giuseppe e Maria! - esclamò Camilla coprendosi il viso
- Il bue e l’asinello... - continuò Greg ridendo
- ...E tutti gli angeli che cantano in coro! - concluse Uriel
Allora Greg e Uriel cominciarono a cantare a squarciagola stonando come le peggiori delle campane.   
Uriel fermò la sua macchina, scese velocemente lanciò ad ognuno dei suoi due compagni un Serf, e subito corse verso la riva.
- Da dove li ha tirati fuori questi? - chiese Camilla a Greg
- E’ parente di Eta Beta - le rispose lui prendendola per mano.
Corsero verso Uriel che frenò sul bagnasciuga piantando il Serf nella sabbia.
Rimase in piedi di fronte al mare, a contemplare l’orizzonte, poi chiuse gli occhi.
Camilla lo osservava affascinata.
Uriel se ne stava immobile ad occhi chiusi respirando lentamente.
Sembrava ispirato, come se ascoltasse qualcosa.
Agli occhi di Camilla Uriel apparve intriso in qualcosa di magico, di armonioso, di infinito, di ignoto, di non classificabile e sfuggente.
Aprì gli occhi verso il cielo, poi si voltò verso Camilla.
La fissava silenzioso.
Camilla non era timida, ma quella volta arrossì: 
Quello sguardo rendeva l’aspetto di Uriel arcano e straordinariamente attraente.
Uriel si voltò verso il mare e trasalì:
- L’onda l’onda! - allungò il braccio precipitosamente e prese il Serf - Andiamo  andiamo - si gettò in acqua
- E’ elettrico il tuo amico - disse Camilla
- Te l’avevo detto che era speciale - rispose Greg - vieni anche tu?
- No! Vi guardo, preferisco stare un po’ ferma: da quando c’è lui non facciamo che correre, saltare, strillare...Mi serve un po’ di pace. E poi io non ho il costume...
- Non è così - disse Greg
- Vuoi sapere meglio di me cosa indosso sotto i vestiti?
- Certo che lo so - rise lui tirandole la camicia - dai togliti questo scafandro!
- Adesso esageri! - Camilla si arrabbiò - Metti giù le mani!
Greg rideva e malgrado Camilla facesse di tutto per impedirglielo, riuscì a toglierle la camicia. Camilla si arrabbiò molto, mentre Greg continuava a ridere:
- Non strillare guarda cosa indossi.
Camilla abbassò lo sguardo e con grande sorpresa vide che stava indossando il costume che aveva comprato pochi giorni prima: un costume intero, nero, austero come era lei.
- Ma com’è possibile? - mormorò stupefatta
- Con tutte le cose che ti costringi a fare se non fosse stato per noi non lo avresti mai utilizzato quel costume - disse Greg
Camilla continuava a guardare il suo costume meravigliata: era sicurissima di averlo lasciato ancora nella scatola delle sua confezione...E poi perché mai avrebbe dovuto indossarlo? Proprio quel giorno...Non era nei suoi programmi andare al mare! 
- Quand’è che imparerai a goderti la vita? - le disse Greg
- Cosa sta succedendo oggi? - mormorò fra sé Camilla
- Vieni? - le chiese un’altra volta Greg, entrando in acqua con il Serf
- No! - strillò lei orgogliosa.
Camilla si sedette sul Serf, scosse la testa e le venne da ridere:
- Che giornata squinternata!
Uriel e Greg dopo aver cavalcato le onde si sdraiarono proni sui loro Serf e cominciarono a chiaccherare guardando Camilla.
- Allora: hai capito qualcosa? - chiese Greg
- Si: è con noi - rispose Uriel piuttosto serio - lei ancora non lo sa ma è dei nostri
- E’ questa la mia paura - intervenne Greg - che né lei né quella palla di grasso del suo fidanzato sanno cosa devono fare. Ma lei è un vero problema, hai visto? S’imbriglia in attività forsennate non si lascia mai un minuto per sé.
Uriel continuava a guardare Camilla con una certa simpatia.
- Non ha ancora deciso! - esclamò Greg seccato
- Se non si decide - il tono della voce di Uriel diventò secco e determinato - la faccio decidere io - si voltò verso Greg e sorrise - la faccio decidere per forza!
- Da quando si costringono le persone? - rise Greg    
Uriel appoggiò la testa sul Serf e rispose ridacchiando:
- Da oggi - poi cambiò discorso - tu piuttosto, cosa hai deciso di fare: vuoi tornare o rimanere con loro?
- No no, ho deciso di tornare. Fino a qualche tempo fa ti avrei risposto che sarei rimasto volentieri, ma ora sono davvero stanco. Comincio ad avere nostalgia
- Beh, per ora pensiamo a tornare dalla nostra signorina.
Trovarono Camilla supina sul Serf.
Uriel si avvicinò a lei con cautela e strizzò i propri capelli facendo colare l’acqua 
sulla fronte della ragazza bagnandole tutta la faccia.
Camilla strillò sorpresa, tirando su la schiena:
- Sei pure dispettoso! - Poi si rivolse a Greg - E’ matto come un cavallo il tuo amico, dove l’hai conosciuto: al Circo?
Greg e Uriel si guardarono sogghignando.
Uriel agitò i capelli continuando a bagnare Camilla che gli diede un calcio.
Uriel allora la prese in braccio e la buttò in acqua.
- Va bene va bene! - rise Camilla - Hai vinto tu - disse tornando sulla riva.
- Uriel! - esclamò una ragazza che sembrò apparire dal nulla.
Era una biondina che spingeva un carretto di bibite, gelati e panini.
Si fermò tra Greg e Uriel:
- Che ci fai da queste parti? - chiese ad Uriel
- Mi ha chiamato lui
- In effetti era molto preoccupato - disse la biondina guardando Greg - Ha paura di partire lasciando a metà il suo lavoro - concluse guardando Camilla - Vuoi un panino, un gelato, una cosa da bere? - chiese a Camilla 
- Un panino - rispose Camilla
- Tieni - la biondina glielo lanciò - te lo offro io
- Offrimene uno anche a me - disse Greg prendendone uno
- Tu non mangi niente? - chiese Camilla ad Uriel
- No no - rispose lui con una smorfia schifata
La biondina abbracciò Greg e Uriel, salutò anche Camilla passando davanti a lei con il carretto:  
- Ciao, ci vediamo presto - le disse - tanto ci sarai anche tu
Camilla la salutò con cortesia, ma che voleva dire? Ci sarai? Anche tu? Dove?
Uriel s’inginocchiò accanto a Camilla. 
- E’ buono? - le chiese
Camilla annuì.
- Cosa c’è dentro?
- Marmellata di amarene - rispose
Uriel la guardava divertito gustare il suo panino.
Camilla stava avvicinando alla bocca il panino: Uriel velocemente addentò il panino di Camilla staccandone una grossa porzione con un morso vorace alzandosi subito in piedi per avvicinarsi a Greg che rideva già da un po’.
Camilla rimase ormai senza più parole:
- Non so cosa devo pensare di te - disse
Uriel masticava e la guardava con occhi brillanti di chi si diverte a fare dispetti:
- Ho sete - disse
- Ha sete - echeggiò Camilla
- Dai giochiamo con il Freesby - disse Uriel a Greg lanciando il Freesby in aria
- Quel Freesby dove l’ha trovato?
- Te l’ho detto che è parente di Eta Beta.
Uriel era già preso dal suo nuovo gioco: lanciò il Freesby a Camilla.
- Ma proprio non riesce a stare fermo un secondo? - disse Camilla iniziando a giocare anche lei.
Giocarono per un bel po’ e Camilla si divertì parecchio, anche se ad un certo punto si lasciò cadere a terra esausta.
- Spegnetelo! - esclamò - Greg ti prego: abbatti il tuo amico!
Uriel l’aiutò ad alzarsi:
- Sei sempre così indaffarata, ma ti stanchi quando si tratta di divertirsi - le disse
- Con te si stancherebbe chiunque! - rispose Camilla un po’ acida
- Andiamo là a riposarci - disse Greg indicando un locale affacciato sulla spiaggia.
Era un bel locale, pieno di disegni etnici sulle pareti, gestito da due giovani aborigeni, che costantemente tenevano come sottofondo musicale i alcuni antichissimi canti del loro Clan.  
Uriel, Greg e Camilla si accomodarono ad un tavolo in attesa che venisse preparato il tè che Camilla aveva ordinato.
- Uriel - era la ragazza del carretto con i gelati ed i panini si affacciò all’interno del locale - c’è il nostro amico - si allontanò subito con il suo carretto. 
Uriel sgranò gli occhi.
Greg che aveva ascoltato si preoccupò di distrarre Camilla versandole il tè.
Ma l’attenzione di Camilla venne si distratta, ma da un ragazzo che entrò nel locale: un ragazzo vestito completamente di  nero come neri erano i capelli, lunghissimi fino oltre ai fianchi, in parte raccolti in parte lasciati sciolti.
- Oh no! - esclamò Greg
- Chi è questo Darkettone ? - disse Camilla
- E’ uno dei miei fratelli - rispose Uriel
- Siete tutti così stravaganti in famiglia? - chiese Camilla
- No qualcuno serio c’è - rispose Greg
- Anche troppo serio - disse il nuovo arrivato sedendosi al loro tavolo
- E’ finita la festa - brontolò Greg
- Uriel: non mi presenti alla tua amica?
Camilla era ipnotizzata: questo tipo era davvero magnetico.
- Cara Camilla ti presento... - Uriel si voltò verso il fratello con sguardo interrogativo
- Damien - intervenne l’altro
- Damien? - sussurrò Greg
- Oggi si chiama Damien - gli rispose Uriel con una velata ironia
- Ti stai divertendo insieme al mio caro fratellino? - chiese Damien a Camilla
- E’ un matto! - rispose lei sorseggiando il te - E anche un po’ maleducato 
- Non sa essere galante vero? - insistette Damien
- Ruffiano - brontolò Uriel
Damien si sporse verso Camilla e con un gesto delle dita della mano sinistra fece comparire un Iris, offrendoglielo con un sorriso che gli illuminò il viso.
- Wow! Sei un mago! - esclamò Camilla prendendo il fiore
- Un vero mago - disse Greg - il migliore degli illusionisti!
- Razza di ladro quello è il mio fiore! - ghignò Uriel
- Potevi offrirmelo tu allora, tuo fratello ha molto più tatto di te - disse Camilla
- Te lo raccomando!
- Gli piace mettermi sempre in cattiva luce - continuò Damien
- E’ invidioso perché sai mettere a proprio agio la persone - disse Camilla
- E amabile la vostra amica - sorrise Damien a Greg
- E’ anche gentile - disse Camilla guardando Greg e Uriel
- E’ tutta scena! - intervenne Greg - Fa così con chiunque, purché respiri!
- Vanno bene pure se non respirano - continuò Uriel
Damien sorrise.
- Sei un necrofilo - disse Camilla scherzosa
- Un negromante - intervenne serio Greg
- Un vampiro - sentenziò Uriel
- Insomma sono un demonio? -sorrise ancora Damien
- Il Re dei demoni - concluse Uriel
- Bisticciate ma in fondo vi volete bene - disse Camilla
- Ma certo che voglio bene al mio caro fratellino! - esclamò Damien cingendo con un braccio le spalle di Uriel.
Uriel fece un sorrisetto sarcastico lanciando un bacetto a Damien.
- Si vede che siete fratelli vi somigliate tantissimo - continuò Camilla
- Hai sentito? Ha detto che mi somigli - disse Damien all’orecchio di Uriel
- E sai che soddisfazione! - rispose Uriel fissandolo negli occhi
- Ne sai fare altri di quei giochi di prestigio? - domandò Camilla
- Certo - rispose Damien facendo comparire un altro fiore
- Sei venuto a farmi perdere tempo? - brontolò Uriel
Damien sorrise ancora.
Uriel sbuffò e si allungò sulla sedia con le braccia conserte.
Damien si divertì a giocare con Camilla: piccoli giochi di prestigio che si usano per incantare i bambini.
Greg era smanioso .
Damien fece apparire delle pietre preziose: rubini che brillavano e coloravano di rosso le sue mani.
- Le tue pietre Uriel! - sussurrò Greg molto inquieto.
Damien si sporse verso Camilla soffiando sui rubini che si trasformarono in una polverina rossa che volò verso di lei.
- Adesso basta! - esclamò Uriel saltando in piedi sul tavolo decisamente arrabbiato.
Attirò su di sé l’attenzione di tutti con un ampio gesto circolare delle braccia.
Dalle sue spalle spuntarono due ali enormi, spettacolari: colorate e leggere come quelle delle farfalle.
Camilla rimase di stucco.
Gli altri presenti nel locale applaudirono.
- E’ il mio maestro di tiro con l’arco! - si gongolò Greg tutto orgoglioso.
Damien si tirò indietro spaventato.
Uriel abbassò gli occhi su Damien con uno sguardo sprezzante e minaccioso: 
- Vediamo se ora hai il coraggio di farle vedere come sono le tue ali - ghignò premendo con la punta di un piede il petto di suo fratello.
Damien lo guardò malissimo: era un’occhiata sinistra di vero odio.
Uriel si voltò verso Camilla e le si inginocchiò di fronte; aprì le sue ali in modo che tutto e tutti, tranne Greg, rimanessero fuori dal campo visivo della ragazza. 
Le prese il viso tra le mani:
- Guarda le mie ali - la implorò
Camilla si trovò immersa in un caleidoscopio di colori fiabeschi che la ubriacarono.
- Guarda le mie ali e dimentica Damien, ti prego - ripeteva Uriel.
Le baciò la fronte. Camilla scosse la testa:
- Non so di chi parli, io non conosco nessun Damien - rispose lei.
Uriel tirò un sospiro di sollievo e sorrise.

Uriel e Greg erano seduti al tavolo.
Uriel si voltò verso l’entrata del locale e vide la biondina del carretto con i gelati e i panini affacciarsi dalla porta:
- Tutto a posto! - gli sorrise
Uriel le fece l’occhiolino, poi guardò Greg che gli stava sorridendo contento, mentre versava il tè a Camilla.
- Perché mi guardate così? - domandò lei
Greg e Uriel non le risposero.
Uriel in particolare guardava Camilla, bere il suo tè, con la tenerezza con cui si guardano i bambini piccoli che imparano a mangiare da soli.
Allungò un braccio e accarezzò i capelli si Camilla.
Lei sorpresa da un gesto così delicato da parte di un matto come lui, smise di bere il tè e lo fissò meravigliata.
Uriel si avvicinò a lei e le baciò una guancia.
- E’ la seconda volta, oggi, che mi fai arrossire - gli disse Camilla - sei un tipo davvero strano lo sai?
- Andiamo o farai tardi alla tua cena - disse Uriel alzandosi in piedi.
I tre uscirono tornando sulla spiaggia.
Uriel e Greg si guardarono: un messaggio d’intesa era sottinteso a quell’occhiata.   
- Facciamo una corsa e vediamo chi arriva primo alla macchina! - esclamo Greg
- Eh va bene! - sospirò Camilla
Greg e Camilla si prepararono a partire.
Uriel diede il via.
Partirono, ma non Uriel.
Quando i due furono abbastanza lontani da lui Uriel fece schioccare una freccia dal suo arco.
Greg smise di correre.
Camilla no, istintivamente cambiò direzione alla sua corsa e invece di raggiungere la macchina di Uriel seguì la traiettoria della freccia.

Camilla corse guardando la freccia.
Non si accorse da quanto tempo stava correndo e dove si stava dirigendo.  
Si accorse solo dopo un po’ e quasi all’improvviso di essere avvolta da una nebbia densa, illuminata da lampi rossi accecanti.
I suoi piedi non affondavano più nella sabbia ma rimbalzavano su un pavimento  metallico argentato.
Camilla si fermò.
La freccia la superò dalle spalle andandosi a conficcare sul pavimento di fronte ai suoi piedi. Allora Camilla la prese e la estrasse con forza.
Appena la freccia fu estratta la nebbia si diradò velocemente.
Il pavimento metallico lasciò il posto ad un tappeto di erba verde morbidissima, accarezzata da un vento primaverile.
Camilla si ritrovò su un promontorio, circondata da scogliere alte che si affacciavano su un mare azzurro e calmo.
Le tornò in mente Uriel, come lui guardava l’orizzonte.
Così anche lei si mise a favore del vento per guardare l’Oceano.
Vide qualcosa di brillante trasparire dal fondo del mare.
Una città sommersa, con palazzi d’oro e d’argento.
Per lei fu un’emozione fortissima: una città scintillante nascosta sott’acqua, stentava a credere ai suoi occhi.
Da quei palazzi vide emergere delle figure diafane.
Salivano leggiadre, come vapore.
Delicate e alate come le fate che si vedono nelle illustrazioni dei libri di fiabe.
Volarono alte nel cielo per poi discendere per rimanere sospese a filo d’acqua.
Camilla venne circondata da migliaia di queste figure che apparvero da ogni dove, popolando l’intera scogliera. 
Danzavano intorno a lei, cantando.
Poi tutte all’unisono fecero un solenne inchino al Sole.
Camilla alzò lo sguardo e vide che da dietro il Sole altri quattro esseri alati stavano volando in picchiata verso di lei.
Erano grandi con ali gigantesche, avevano un aspetto regale.
Tutti e quattro atterrarono vicino a Camilla:
uno davanti, uno alle sue spalle, uno a destra e l’altro a sinistra.
Quello a sinistra lo riconobbe immediatamente: era Uriel.
Tutte le altre figure alate ripresero a danzare in cerchio intorno a Camilla e la sua sontuosa scorta.
Uriel si avvicinò e avvolse Camilla con le sue ali.
- Guarda - le indicò il Sole.
Il Sole ebbe una strana oscillazione: apparvero altri due Soli.
Tre grandi Stelle che galleggiavano nel cielo.
Camilla sorrise e si appoggiò alle ali di Uriel, chiudendo gli occhi.
- Allora vieni con noi? - le domandò Uriel

- Avevi promesso - era la voce di Greg
Camilla aprì gli occhi.
Si trovava nell’ufficio degli insegnanti, appena dopo aver terminato la lezione.
Si guardò intorno sorpresa e sospettosa.
Possibile che tutto quello che era accaduto fosse stato solo un sogno?
Un sogno durato la manciata di secondi che dividevano la domanda di Greg dalla sua risposta.
- Allora vieni? - domandò dinuovo Greg
- Certo che vengo! - esclamò Camilla.
Greg annuì sorridendo soddisfatto. 

FINE

Copyright Katya Sanna 2002